Le 7 lettere alle Chiese: lectio di don Cristiano



UNO STREPITOSO DIALOGO DI CRISTO

CON LA SUA CHIESA


a cura di don Cristiano Passoni




Un dialogo di Cristo con la sua Chiesa. È in questa luce che possiamo leggere le famose sette lettere alle Chiese, contenute nei capitoli 2-3 dell’Apocalisse. Quanto ad una visione complessiva del libro, basti solo un piccolo accenno. Scritto verso la fine del I secolo, dunque, in un’epoca tormentata, di passaggio, per certi versi come la nostra, Apocalisse intende soprattutto promuovere due riflessioni. Da una parte, vuole ammonire le comunità cristiane a ritrovare l’essenziale nelle loro crisi di assestamento sul versante interno, e, sul versante esterno, a perseverare a fronte del pericolo delle persecuzioni, perpetrate dal potere romano. Dall'altra, annuncia potentemente il compimento definitivo della storia, aiutando a leggere tutto dalla sua ricapitolazione finale.


Una visita pastorale a delle Chiese concrete

Dopo la visione del Figlio dell'uomo (1, 4-20), le lettere alle sette Chiese introducono nell'intimo delle relazioni che legano le Chiese a Cristo. Come appare dal testo, le sette Chiese non sono puri simboli, o realtà immaginarie, ma Chiese concrete. Ciò è evidente e suggestivo, se si presta attenzione a due aspetti. 

Il primo è la collocazione geografica delle Chiese e il loro ordine di apparizione. La prima Chiesa nominata, infatti, è Efeso. Seguono Smirne, Pergamo e Tiàtira. Poi, le Chiese di Sardi e di Filadelfia e, per concludere, la settima, quella di Laodicea. Come i commentatori hanno fatto notare, Giovanni compie un vero e proprio viaggio che corrisponde alla realtà. Inizia, infatti, risalendo dal sud verso nord, essendo Pergamo al limite nord dell'itinerario; ridiscende quindi in direzione di sud-est, da Pergamo a Tiatira, Sardi, Filadelfia, Laodicea, per tornare a Efeso.
L'ordine non è scelto a caso: una strada segnava infatti questo percorso. Le distanze tra le città nominate, inoltre, sono quasi uguali. In questo modo, si può suggestivamente pensare che l’itinerario percorso da Cristo corrisponda a una sorta “visita pastorale” alle sette Chiese, ben programmata, che, d’altra parte, Giovanni stesso, residente a Efeso, poteva effettuare, partendo dalla stessa città.

Il secondo aspetto è la conoscenza effettiva che Giovanni sembra avere delle diverse Chiese. Anche questo induce a ritenere che non si possa pensare a Chiese simboliche, ma reali, non immaginarie. Giovanni, infatti, conosce con precisione la realtà di queste Chiese e delle loro rispettive difficoltà. Sembra che ci sia stato di persona o che qualcuno gli abbia raccontato con precisione le diverse situazioni. Ma la sottolineatura non va in questa linea. Piuttosto riconosce l’attenzione premurosa del Signore risorto. È, anzitutto, la sua conoscenza che è messa in evidenza. E sapersi conosciuti è il passo insuperabile del sapersi amati. È questo che, anzitutto, vuole suggerire alle Chiese quale sguardo complessivo. Basta fare qualche esempio.

Efeso appare chiaramente una metropoli, come di fatto lo era all'epoca. Pergamo viene identificata come il luogo dove risiede il trono di Satana. Questa città, infatti, era il luogo preminente del culto imperiale per la Provincia dell’Asia minore. Ed è proprio questo culto che Giovanni considera come satanico. Nel capitolo 13 dell'Apocalisse, infatti, il culto imperiale è strettamente collegato al drago che incarna Satana.

Alla Chiesa di Laodicea Gesù dice: «Conosco le- tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo? Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca» (3, 15-16). Gli esegeti affermano che a Laodicea c'erano delle sorgenti termali calde… Davvero singolare, pertanto, appare l’immagine della tiepidezza, per nulla lontana dalla realtà e dal vissuto ordinario della gente e, per questo, anche immediatamente comprensibile. Con ogni probabilità il disgusto per la tiepidezza delle acque era noto a tutti. Poco oltre, alla stessa città viene detto: «Ti consiglio di comperare da me oro purificato dal fuoco per diventare ricco, vesti bianche per coprirti e nascondere la vergognosa tua nudità, e collirio per ungerti gli occhi e ricuperare la vista» (3, 18). Anche questo dato è reale. La città, infatti, era particolarmente rinomata per i suoi tessuti e per il suo collirio. In tal modo, forse anche con un pizzico di ironia, ma insieme con grande forza, si può comprendere meglio il discorso a lei rivolto. È una comunità che conserva qualche difetto di vista circa la realtà, non meglio precisato e per questo i suoi occhi hanno bisogno di cure.

Qualcosa di simile vale anche per Sardi. A questa città viene detto: «verrò come un ladro» (3, 3). Era, infatti, noto che Sardi era stata invasa d'improvviso; il nemico era entrato in essa di notte, come un ladro. Questa memoria non poteva che suscitare diversi sentimenti nella comunità, tra la paura di non accorgersi di nulla e quella di vedersi sottrarre le proprie sicurezze. Ma Dio viene sempre così, come Colui che spiazza, che si contrappone alla falsa pace delle coscienze. 

È chiaro, dunque, che non si tratta di città ideali o simboliche, quanto di luoghi reali, dove c’è una vita concreta ben riconoscibile. Le lettere sono inviate a queste comunità. Come del resto sono inviate a ciascuno di noi come a realtà concrete, ben identificate. Non sono un esercizio retorico, ma indicazioni che, appunto, nel nostro immaginario, potrebbero pervenire a seguito di una “visita pastorale”. Applicandole al nostro vissuto ecclesiale e associativo, perché non pensare, attraverso di esse a una concreta visita pastorale all'Associazione? Si tratta, allora, di leggere nel concreto la vita delle sue molteplici espressioni, coordinate dal Centro e sparse nel territorio. 

Lettere costruite sul medesimo modello

Leggendole complessivamente inoltre, ci accorgiamo di un altro aspetto. Troviamo un modello comune sul quale tutte, in qualche modo, sono state redatte. Non manifestano con questo una pura uniformità, ma un modello di comunicazione. In tal modo, non lasciano nel vago l’insuperabile domanda di ogni uomo e comunità: ma come si manifesta Dio a me e alla sua Chiesa? Quale lettera lo Spirito mi scrive e ci scrive? A quali condizioni possiamo dire che non ci stiamo illudendo di un messaggio che ci siamo scritti da soli? Ecco, questo tratto comune dello scritto, questo “modello di scrittura”, non dice l’uniformità e dunque l’irrilevanza dello scritto, ma una possibile modalità, una possibile forma dentro la quale riconoscere la verità della parola destinata a noi. Insomma, se vogliamo sapere come Dio si rivolge a noi ed esserne certi, in qualche modo, dentro lo schema di queste lettere, potremo trovare qualche dato oggettivo. 

In tutte, infatti, troviamo un identico prologo («All'angelo della Chiesa di ... scrivi »), una sorta di ritornello, sebbene non situato allo stesso posto («Chi ha orecchi intenda quello che lo Spirito dite alle Chiese»), e, infine, una presentazione del mittente, vale a dire, di Gesù stesso («Cosi parla…»). In particolare in questa autopresentazione vengono significativamente ripresi ciascuno dei sette attributi della visione del Figlio dell'uomo (1, 9-20) dell’inizio del libro. Si capisce, in tal modo, l’intento di Giovanni di legare la visione del Figlio dell'uomo alle sette lettere. Ciò significa che colui che parla alle Chiese non è altro che il Cristo glorioso, di cui Giovanni ha fatto esperienza e ne ha avuto una visione.

Un esame di coscienza

All'interno di ogni lettera, poi, il Cristo glorioso invita ciascuna delle sette Chiese a fare l'esame di coscienza del proprio vissuto, introducendolo con una formula precisa: «Io so…». Non è un sapere che incute timore o che ha la forma di una minaccia. Piuttosto emerge il suo interesse e il suo amore per le Chiese. Non è un interesse di facciata. Al contrario è lui che conosce la vita delle sue Chiese nei suoi aspetti positivi e negativi, nella sua forza di testimonianza, come nell'inevitabile fragilità e debolezza. Basti qualche esempio per dimostrarlo.

Alla Chiesa di Efeso scrive: «Sei costante e hai molto sopportato per il mio nome, senza stancarti. Ho però da rimproverarti che hai abbandonato il tuo amore di un tempo» (2, 3-4). Si vede come non si tratta solo di osservazioni puramente negative. Potremmo dire che alla confessio vitae è fatta precedere una confessio laudis per il bene presente nella comunità e che non si può trascurare, come pure, una confessio fidei, che riguarda il volto particolare del Cristo glorioso, sperimentato dalla singola Chiesa. In tal modo Egli aiuta la comunità a non scoraggiarsi per ciò che sperimenta, ma a gioire per il bene che la abita, incoraggiandola, con giusto realismo, a una coraggiosa ripartenza, secondo le proprie possibilità. Infatti, prosegue: «Ricorda dunque da dove sei caduto» (2, 4-5). Contemplando la grazia nella quale la comunità viveva, diventa più ragionevole ripartire, non per puro volontarismo: «Ravvediti e compi le opere di prima» (2, 5). Chiara, è, infine, la promessa di una ricompensa: «Al vincitore darò da mangiare dell’albero della Vita, che sta nel paradiso di Dio» (2, 7). Tutto questo viaggio è nella speranza, qui ed ora operante, di godere in eterno di quella vita che già è offerta come cibo per i viaggiatori. È una bella speranza nella quale abitare i giorni e attendere il loro compimento.

Notiamo, poi, altri particolari di questo esame di coscienza. I verbi «Ravvediti», «Convertiti» si trovano nella prima, terza, quinta e nella settima lettera, vale dire alle Chiese di Efeso, Pergamo, Sardi e Laodicea. Per la seconda e la sesta città, invece - Smirne e Filadelfia - non troviamo curiosamente un invito alla conversione. La piccola Chiesa di Filadelfia molto modesta, per esempio, sembra, infatti, avere una importante vita spirituale e pastorale. Non è, certo, la metropoli di Efeso, né la grande città di Pergamo, tanto meno lo snodo portuale-commerciale di Smirne: è soltanto una piccola Chiesa, sperduta nella campagna. Tuttavia Il Signore Gesù le rivolge parole d’eccezione: «per quanto tu abbia poca forza, hai però custodito la mia parola e non hai rinnegato il mio nome» (3, 8). È il massimo degli elogi che si poteva ascoltare. In sostanza, nella sua piccolezza e umiltà, ha compiuto quanto era giusto ed è giusto fare. Ma, ancora una volta si capisce che ci si rivolge a storie concrete molto diverse tra loro, pur abitando relativamente vicino.

Storie di Chiese, senza contrapposizioni o competizioni

Ogni Chiesa, dunque, come ogni esistenza, del resto, conserva la propria storia. Si tratta precisamente di fare il punto sopra di essa, in questo momento storico, senza vagare o misconoscere il proprio tempo. Si evidenziano pertanto, alla fine, due serie di Chiese, due storie dentro le quali radunare i vissuti, senza che vi sia un giudizio tagliente e definitivo o la contrapposizione dell’una contro l’altra: sono semplicemente storie di vita di cui prendere visione e consapevolezza, senza cedere all'orgoglio dei risultati, alle inconsistenze sperimentate, al giudizio inappellabile o alla competizione presuntuosa tra le Chiese. 
Ciò che appare, infatti, è che vi sono comunità che, aiutate a leggere il proprio vissuto dalla Parola autorevole del Cristo glorioso, comprendono la propria storia attuale, il proprio peccato e le vie più opportune per la propria conversione (Efeso Pergamo Sardi, Laodicea); vi sono, d’altra parte, Chiese che sono chiamate a gioire per quanto vivono e a consolidarsi in esso, senza inorgoglirsi (Smirne, Tiatira - con la riserva legata alla setta di Gezabele, forse erroneamente tollerata dalla comunità - e Filadelfia).

Un raffronto tra Chiese «provate» e Chiese «meno provate» in “questo tempo”, tra Chiese in pericolo e Chiese più assestate, consente anche di fare ulteriori osservazioni. Efeso, la prima nominata, è tra le Chiese provate/colpevoli che, tuttavia, riceve anche sorprendentemente il massimo di elogi: otto in tutto. Comprendiamo allora che, tra i rilievi c’è anche questo tatto che non sa riconoscere: forse è una Chiesa che fatica a vedere il bene che è in essa e rischia di ripiegarsi sulle sue rovine. Tra le sue conversioni c’è dunque, anche questo: provare ad apprezzarsi un po’ di più. Così le dice Gesù: «Conosco le tue opere, la tua fatica e la tua costanza, per cui non puoi sopportare i cattivi; hai messi alla prova - quelli che si dicono apostoli e non lo sono - e li hai trovati bugiardi. Sei costante e hai molto sopportato per il mio nome, senza stancarti » (2, 2-3). È un grande elogio che incoraggia molto a prendere sul serio il cammino conseguente di conversione. Anche Pergamo è lodata: «Tu rendi saldo mio Nome e non hai rinnegato la mia fede» (2, 13). Alla Chiesa di Sardi non vengono rivolti elogi, però si legge: «Tuttavia in Sardi vi sono alcuni che non hanno macchiato le loro vesti» (3, 4).

La lettera più severa è, senz'altro, quella indirizzata alla Chiesa di Laodicea: «Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca. Tu dici: "Sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla", ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo. Ti consiglio di comperare da me oro purificato dal fuoco per diventare ricco, vesti bianche per coprirti e nascondere la vergognosa tua nudità e collirio per ungerti gli occhi e ricuperare la vista. Io tutti quelli che amo li rimprovero e li castigo. Mostrati dunque zelante e ravvediti» (3, 15-19). Nella durezza obiettiva della parole, non facili da ascoltare, emerge, però, la ragione ultima che muove al rimprovero: «Io, tutti quelli che amo li rimprovero e castigo». È, dunque, l’amore che guida la parola severa, non altro. Essa è segno di uno stare a cuore, di un interesse che, sulle prime scoraggia, ma presto appassiona. Anche questa è una forma del sentirsi amati. Se fatta con fermezza e dolcezza, la correzione è una forma inequivocabile di amore.

Di seguito questo intento amoroso si specifica in una ricerca incessante e commovente: «Ecco, sto alla porta e busso». Come un mendicante in ricerca di coloro che ama, Gesù bussa alla porta e chiede di aprire per far entrare nel suo mistero di comunione: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me. Il vincitore le farò sedere presso di me, sul mio trono, come io ho vinto e mi sono assiso presso il Padre mio sul suo trono» (3, 20-21).


Per una Chiesa in uscita

A commento ulteriore di questa splendida attenzione, vengono in mente le parole di papa Francesco al Conclave. Si tratta di una curiosa lettura “al rovescio” del testo di Apocalisse. Durante l’omelia pronunciata nella prima messa celebrata a Cuba dopo l’elezione del nuovo pontefice, l’arcivescovo dell’Avana, card. Jaime Ortega y Alamino ha raccontato di essere rimasto così colpito dal discorso “magistrale, perspicace, coinvolgente e vero” pronunciato dal card. Jorge Mario Bergoglio nel corso della Congregazione generale dei cardinali, prima di entrare in Conclave, da chiedergli se poteva avere il testo. L’arcivescovo di Buenos Aires gli ha detto che aveva fissato alcuni punti, ma che non l’aveva scritto, e la mattina dopo gli ha consegnato un foglio in cui li aveva appuntati come li ricordava. Il card. Ortega ha chiesto se poteva pubblicarlo una volta concluso il Conclave, e Bergoglio gli ha risposto di sì. Glielo ha domandato nuovamente dopo che l’arcivescovo di Buenos Aires era diventato papa Francesco e il pontefice gli ha confermato che poteva farlo. Il testo è quindi uscito sulla rivista dell’arcidiocesi dell’Avana Palabra Nueva.


«Si è fatto riferimento all'evangelizzazione. È la ragion d’essere della Chiesa. “Conserviamo la dolce e confortante gioia di evangelizzare” (Paolo VI). È lo stesso Gesù Cristo che, dal di dentro, ci spinge.

  1. Per evangelizzare c’è bisogno di zelo apostolico. Evangelizzare esige nella Chiesa la parresia di uscire da se stessa. La Chiesa è chiamata a uscire da se stessa e andare nelle periferie, non solo geografiche, ma anche esistenziali: quelle del mistero del peccato, del dolore, dell’ingiustizia, dell’ignoranza e del prescindere dalla religione, del pensiero, di tutte le miserie.
  2. Quando la Chiesa non esce da se stessa per evangelizzare, diventa auto-referenziale e si ammala (cfr. la donna curva ripiegata su se stessa di cui parla Luca nel Vangelo – 13,10-17). I mali che, nel tempo, colpiscono le istituzioni ecclesiastiche derivano dall’autoreferenzialità, da una specie di narcisismo teologico. Nell’Apocalisse Gesù dice che è alla porta e bussa. Ovviamente il testo si riferisce al fatto che colpisce la porta dall’esterno per entrare... Ma penso ai momenti in cui Gesù bussa dall’interno affinché lo lasciamo uscire. La Chiesa autoreferenziale vuole tenere Gesù Cristo dentro e non lo fa uscire.
  3. Quando la Chiesa è autoreferenziale, senza rendersene conto crede di avere una luce propria; smette di essere il mysterium lunae e sviluppa quel male molto grave che è la mondanità spirituale (secondo De Lubac, il peggior male che possa capitare alla Chiesa). Quel vivere per dar gloria gli uni agli altri. In parole povere ci sono due immagini della Chiesa: la Chiesa evangelizzatrice che esce da se stessa, la Dei Verbum religiose audiens et fidenter proclamans, o la Chiesa mondana che vive in sé, di sé e per se stessa. Quest’analisi dovrebbe far luce sui possibili cambiamenti e sulle riforme che devono essere fatte per la salvezza delle anime.
  4. Pensando al prossimo papa: dovrebbe essere un uomo che, partendo dalla contemplazione e dall'adorazione di Gesù Cristo, aiuti la Chiesa a uscire da se stessa verso le periferie esistenziali, che l’aiuti a essere la madre feconda che vive della “dolce e confortante gioia di evangelizzare”» (Evangelii Nuntiandi, 80).
Il tema è ritornato con forza nel magistero come uno dei cardini del suo magistero. Merita però ricordare la sua prima vera apparizione, in una forma più elaborata, nel discorso ai vescovi brasiliani, il 27 luglio 2013, in occasione della GMG di Rio. Per sé si parla dei discepoli di Emmaus, ma la sostanza va nella medesima direzione, che dà da pensare.

«Rileggiamo in questa luce, ancora una volta, l’episodio di Emmaus (cfr Lc 24, 13-15). I due discepoli scappano da Gerusalemme. Si allontano dalla “nudità” di Dio. Sono scandalizzati dal fallimento del Messia nel quale avevano sperato e che ora appare irrimediabilmente sconfitto, umiliato, anche dopo il terzo giorno (vv. 17-21). Il mistero difficile della gente che lascia la Chiesa; di persone che, dopo essersi lasciate illudere da altre proposte, ritengono che ormai la Chiesa - la loro Gerusalemme - non possa offrire più qualcosa di significativo e importante. E allora vanno per la strada da soli, con la loro delusione. Forse la Chiesa è apparsa troppo debole, forse troppo lontana dai loro bisogni, forse troppo povera per rispondere alle loro inquietudini, forse troppo fredda nei loro confronti, forse troppo autoreferenziale, forse prigioniera dei propri rigidi linguaggi, forse il mondo sembra aver reso la Chiesa un relitto del passato, insufficiente per le nuove domande; forse la Chiesa aveva risposte per l’infanzia dell’uomo ma non per la sua età adulta. Il fatto è che oggi ci sono molti che sono come i due discepoli di Emmaus; non solo coloro che cercano risposte nei nuovi e diffusi gruppi religiosi, ma anche coloro che sembrano ormai senza Dio sia nella teoria che nella pratica. Di fronte a questa situazione che cosa fare?

Serve una Chiesa che non abbia paura di entrare nella loro notte. Serve una Chiesa capace di incontrarli nella loro strada. Serve una Chiesa in grado di inserirsi nella loro conversazione. Serve una Chiesa che sappia dialogare con quei discepoli, i quali, scappando da Gerusalemme, vagano senza meta, da soli, con il proprio disincanto, con la delusione di un Cristianesimo ritenuto ormai terreno sterile, infecondo, incapace di generare senso».


Il Signore della Chiesa

In sintesi, nei capitoli 1-3 dell'Apocalisse, Cristo appare come il Figlio dell'uomo, il Signore che esercita una vera autorità nelle Chiese. È il Signore delle Chiese! Egli esercita il suo potere di pastore su Chiese concrete, non su ideali o modi immaginari. La sua cura attuale e permanente, si esplica in modi diversi. In tal modo, lo possiamo contemplare in queste lettere come l’autentico capo e Signore delle comunità; come colui che si interessa alla vita delle sue Chiese, esercita su di esse un'influenza diretta. Scruta, conosce, sa: ha occhi penetranti e colmi di attenzione. È capace singolarmente di lode, vale a dire, è pieno di bontà e di capacità di riconoscere il bene. Non è pedante e opprimente, pur essendo assai esigente. Per questo appare come uno che corregge anche in modo severo, ma lo fa per amore. Esorta alla conversione, scuote, incoraggia. Annuncia prove e lotte da affrontare. Segue da vicino gli avvenimenti che coinvolgono la vita delle Chiese. Insomma, è il vero pastore e custode delle Chiese che cammina con esse, amando e vegliando, annunciando e mantenendo le sue promesse, come di colui che viene, ora e sempre. Egli ha amato e dato se stesso alla sua Chiesa ed essa, alla fine, come una sposa, lo invoca: «vieni!». E si sente rispondere: «Si, vengo presto!» E a sua volta, finalmente, afferma: «Amen, vieni, Signore Gesù» (22, 17.20). Tuttavia, chi ascolta e chi risponde non una Chiesa eterea, ma la Chiesa pellegrina sulla terra con i suoi difetti e i suoi doni. La riforma tanto desiderata di essa, pertanto, prima che da impressionanti sforzi della volontà, incomincia dalla contemplazione di Colui che l’ha amata e ha dato se stesso per lei.

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